IMMERGERSI NELL’AMORE DEL PADRE

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«Tu sei il mio figlio l’amato, in te mi sono compiaciuto»

La festa di oggi è una delle più importanti dell’esperienza del cristiano: quella del Battesimo di Gesù. Essa termina il tempo del Natale per immergerci nuovamente in quello ordinario che ci accompagnerà alla Quaresima. Vediamo quali possono essere gli elementi importanti di questa festa, non solo per chi condivide il dono della fede, ma anche per chi è in ricerca e autenticamente prova a porsi in ascolto.

Il Battesimo di Gesù è uno degli episodi più attestati dai Vangeli ed è alla base del ministero di Cristo. Dopo aver vissuto quasi nascostamente per trent’anni, questo strano Messia, falegname di un villaggio sperduto della Galilea, Nazareth, inizia il suo servizio agli uomini e al mondo compiendo, come prima cosa, un gesto molto significativo: si reca da Giovanni il Battista, che predicava conversione, e si fa battezzare. La descrizione dell’episodio da parte degli evangelisti, in particolare di Marco che sembra essere la fonte degli altri, è particolarmente sobria e significativa:

«In quei giorni Gesù venne da Nazaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni».

Una narrazione essenziale che dice cammino, ricerca, e conversione. Ecco il primo grande dono di cui essere consapevoli: Gesù è un Messia che si mette in fila con i peccatori. Il Cristo, colui che Dio ha mandato per liberare non solo Israele ma tutto il mondo, colui che addirittura si rivelerà come il Figlio di Dio, ovvero natura della sua natura (noi diremmo carne della sua carne), non cattura per sé la scena, ma si mette in fila, con tutti noi. Questo mettersi in fila ci dice la profondità dell’incarnazione e ci rivela il senso autentico dell’agire di Dio: Egli incarnandosi non si vuole autocelebrare, non si mette al centro della piazza e della scena per mostrare la sua potenza scintillante. La sua azione è un prendere carne nel senso di assumere la condizione, farsi carico, immedesimarsi. Dio si fa uomo e si mette in fila con noi. Dio, l’Onnipotente, vuole sperimentare, e la sperimenta fino in fondo, la precarietà del nostro essere limitati. Quella precarietà che rende instabili, bisognosi e, per questo, così preziosi ai Suoi occhi. Dio, in quel Battesimo, ha continuato a dire sì al suo prendere carne e, quindi, al suo abitare il limite. Una cosa quasi sconcertante: l’Onnipotenza, il poter tutto, non è in contraddizione con il decidere di abitare il limite!

Ma che significa essere battezzati? Sappiamo che la parola battesimo in greco significa immersione, tuffarsi, buttarsi dentro. Dio si immerge nella nostra umanità. Niente della nostra umanità, per quanto fragile, limitata, turpe e ferita, è lontano dall’amore di Dio. Questa scelta di Gesù a inizio ministero dona nuova luce, non solo sulla natura profonda dell’azione di Dio, ma anche alla possibilità che ci viene data: l’uomo può essere battezzato, immerso pienamente nella vita! Il battesimo diventa porta di vita vera, piena, realizzata. Il catechismo della Chiesa cattolica ci dice in cosa veniamo immersi nel battesimo: nella vita di Dio. Essere battezzati significa entrare pienamente nella vita di Dio, sperimentare in noi la possibilità e la realtà di vivere con, di più, in Dio. E la vita di Dio, la sua natura profonda, è la morte di Cristo. Può suonare paradossale, ma questo è il Vangelo, la buona notizia: la vita di Dio è la morte di Cristo.

Che cosa vuol dire? Che vivere come Dio significa donarsi; che la luce della resurrezione dipende da quanto abbiamo saputo abitare il Venerdì Santo. Un Venerdì Santo che non dice disperazione, oblìo, paura, ma, tutt’altro, coraggio di andare fino in fondo, di non scendere a compromessi, di non amare fin tanto che, di non dire solo per apparire, e non fare solo per averne in cambio. Il Battesimo a inizio ministero evidenzia da subito quale sia la missione di Gesù. Una missione di totale donazione, che non cerca autocompiacimento. Anzi, dal resto del Vangelo sapremo che il Cristo sarà continuamente tentato da Satana in questo: nel rivelarsi come un campione di forza, trionfo, successo e nel rinnegare la logica della croce (del dono di sé). Non è un caso che subito dopo il battesimo Gesù venga trascinato nel deserto dove verrà tentato; Marco non ci dice immediatamente di quale tentazione si trattò, lo sapremo solo al capitolo 8, al centro del Vangelo (che ha 16 capitoli) quando Pietro, dopo aver confessato che Gesù è il Cristo, vuole distoglierlo dall’andare a Gerusalemme e dalla logica della croce. Gesù lo chiama Satana. Perché questo è tutto il lavoro del tentatore: raccontarci che la croce e il dono di sé siano solo una morte inutile, che niente rimarrà di noi se facciamo dell’umiltà, dell’amorevolezza, della generosità, dell’altruismo, in due parole dell’amore e della gratuità il centro della nostra vita. Il senso della nostra esistenza si gioca fondamentalmente qui: o ci mettiamo, sul Giordano, in fila con il Cristo per seguirlo fino a Gerusalemme, all’oscura luminosità del Venerdì Santo, fidandoci di risorgere con Lui, o diamo ascolto al tentatore, rimaniamo con lui nel deserto a ordinare cocciutamente alle pietre di farsi pane, a urlare agli angeli di salvarci quando vogliamo buttarci giù dal grattacielo più alto e, così, buttare via la nostra vita, tutti concentrati sull’acchiappare quanto più possiamo, sul guerreggiare in una gara competitiva e senza sosta contro l’altro e, quindi, profondamente, su quella paura vertiginosa di donarsi che è tutt’uno con l’irreale certezza di essere soli, di dover meritare tutto, di non poter essere amati gratuitamente.

Se sappiamo metterci in fila con il Cristo, se sappiamo affrontare quella paura che il tentatore cerca in ogni momento di rendere una realtà, possiamo entrare in Dio e vedere quello che Gesù ha visto sul Giordano, rivedrà sul Tabor, che è la stessa realtà che Egli era prima del tempo, ed è in quell’eterno giorno dopo il sabato che è la sua vita dopo il Venerdì Santo:

«E, uscendo dall’acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba. E si sentì una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto».

Credere in Cristo significa credere che questa esperienza, quella di vedere i cieli aprirsi (ovvero la verità rivelarsi), lo Spirito discendere su di sé (ovvero la verità rivelarsi a me, alla mia vita, al mio passato, in quello che ho vissuto, pensato, cercato e trovato, niente escluso) e quella di sentire la voce del Padre che benedice la mia esistenza, sia la più autentica che l’umanità possa fare. Essere cristiani è aprirsi ad una verità: io sono amato di un amore totalmente gratuito, di un amore che non devo meritare e, proprio e solo per questo, che posso incarnare e testimoniare. Seguire Cristo è, allora, in ultima e più profonda istanza, sperimentare su di sé l’amore gratuito del Padre; è avere il coraggio di dire a Dio Padre di lasciarsi amare, atteggiamento sempre meno di moda, e di sperimentarsi come voluti e pensati dall’eternità. E, così, sapersi fare davvero fratelli e prossimi a chiunque incontriamo. Costruire comunità diventa, così, aiutarsi gli uni gli altri a chiamare Dio Padre, a vivere e sperimentare il Suo amore, senza entusiastici isterismi idolatrici e autocelebranti, ma nella banale e profonda quotidianità, per giungere a benedire tutta la propria esistenza e vedere in tutto quello che ci è capitato la trama dell’amore di Dio che continuamente ci ripete: Tu sei il Figlio, l’amato.

Davide Penna

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4 Risposte a “IMMERGERSI NELL’AMORE DEL PADRE”

  1. Graie, Davide!
    E’ la più bella meditazione di inizio anno!
    Spero che questo “mettermi in coda” che mi hai svelato diventi sempre più il senso della mia scelta di Dio.
    Buon tutto!

    1. Se ci pensiamo, il fatto di dover meritare attraverso il “fare”, è la concezione dei farisei che Gesù mette a dura critica. L’amore di Dio non si riceve grazie alla nostra bravura. E’ quasi il contrario: sappiamo diventare “bravi”, riusciamo a essere in comunione con Dio, se ci lasciamo amare da Lui, se gustiamo la sua gratuità. Solo così saremo, fino in fondo, in grado di viverla e testimoniarla. Il merito è una logica più farisaica che evangelica. E’ la logica del fratello maggiore della parabola del padre misericordioso. Il Padre non ci chiede di meritare il Suo amore, di meritare di essere Suoi figli… perché lo siamo già. Al limite, ci chiede di “gustare” con gioia l’essere figli nel Figlio. Almeno, questa è la mia esperienza. Un caro saluto, Davide.

  2. Ti ringrazio anch’io, Davide, per la tua bellissima, profonda e “vera” riflessione. Sì, anche ciascuno di noi è “il figlio, l’amato”, fratello di Gesù anche nel rivivere – unito a Lui – ogni aspetto dell’Abbandono (come ci insegna Chiara). Grazie ancora! Paolo V.

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