Da pochi anni esercito la professione dell’insegnante, anche se da molti era nei miei progetti e, fin dai tempi del liceo, ho curato questa passione facendo l’educatore e aiutando miei compagni nello studio. Ho ricevuto, in questi anni di formazione, tante rassicurazioni in merito: ragazzi, compagni di viaggio, coetanei, professori liceali e universitari che mi rassicuravano che, nonostante la strada in salita, fosse quello il mio percorso. Una volta arrivato ho gustato il fatto e la certezza che, in effetti, questa è la professione che desidero, che considero la più adatta alla mia vocazione. Ovviamente non mancano difficoltà, momenti di incomprensione, di dubbio, di un’apparente fatica che non ripaga.
L’esperienza che più mi accompagna in questi anni è quella della necessità di benedire il mio non poter tutto; solo se, in qualche modo, riesco a custodire il mio limite che, spesso, è fatto di insuccesso e insufficienza, solo se ne faccio un tesoro da cui attingere per esperienze future, posso preservare me stesso dalla tentazione di identificarmi con ciò che non riesco a fare. Non mi stupisce il dato che indica gli insegnanti come la professione in cui bornout sia più diffuso, e non tanto per il motivo, come spesso si dice, che sia un lavoro con scarso riconoscimento sociale; mi sembra che una delle cause più evidenti sia da rintracciare nella natura stessa della professione educativa. Chi educa e chi forma è chiamato ad una doppia operazione: permettere all’educando di esprimere pienamente se stesso (una sorta di maieutica socratica del tirare fuori) e custodire il mistero di quel “se stesso” che non può mai essere totalmente riducibile all’immagine che io, insegnante, ho di lui. In questa dinamica del tirare fuori e custodire l’insegnante forma l’altro nella misura in cui si rende sempre più superfluo, invisibile, non riconosciuto; siamo, quindi, chiamati ad essere dei presenti non riconosciuti.
Se io come insegnante non accetto, in profondo, questa dinamica, se non accetto quella vocazione a non raccogliere i frutti di quanto seminato, se cado nella tentazione della misurazione ostinata, in termini di successo e insuccesso formativo, rischio di non benedire più il mio limite ma di farne un’identità da maledire. Io posso bene-dire la mia insufficienza solo se ho accettato che l’altro è un mistero, che le mie immagini del successo e dell’insuccesso sono qualcosa che va continuamente rivisitato; posso, in altri termini, bene-dire il mio limite se ho il coraggio di curare il non ancora; il che va sempre di pari passo con il sì profondo al fatto che il già, la realizzazione, la raccolta del frutto, è un dono che, in quanto insegnante, non sono tenuto a richiedere.
Penso che dal custodire il mistero e dall’investire sul seme senza volerlo raccogliere passi una buona parte della realizzazione della nostra professione di insegnanti ed educatori; e, quindi, della nostra liberante Pasqua, ovvero del passaggio dalla male-dizione del quotidiano alla sua celebrazione.
Davide Penna
Grazie Davide, una bella testimonianza e come sempre un preziozo articolo. Alla prossima…Oscar