Periodicamente il tema delle pensioni o – se si vuole dare un tocco più emotivo all’argomento – dello scontro tra generazioni (meno ai padri più ai figli, e simili), viene riproposto all’attenzione pubblica attraverso una informazione densa di luoghi comuni, superficialità, parzialità dei dati.
Certamente il problema degli anziani esiste, ma non tanto o non solo dal punto di vista della sostenibilità del sistema pensionistico, ma quanto del sistema sociale nel suo complesso: una società con una forte percentuale di anziani comporta quantomeno una ridefinizione della cultura e dei servizi, del sistema produttivo e di consumo. Il problema c’è e sarebbe interesse di tutti affrontarlo partendo dalla realtà dei dati, non dai pregiudizi.
Prima domanda: quanto incide la spesa pensionistica in rapporto al PIL? In genere i giornali riportano la cifra di circa il 15% del PIL: dato clamorosamente sbagliato perché questa cifra si ottiene sommando la spesa assistenziale e previdenziale dell’INPS. Se si calcola solo la spesa previdenziale arriviamo a meno dell’11% del PIL (dati 2015), e siamo ben dentro la media europea.
I giovani pagano le pensioni? Non in quanto tali. Il nostro sistema pensionistico, come quasi tutti quelli pubblici, è a ripartizione: ciò significa che i contributi di chi lavora oggi – giovani e meno giovani, immigrati e italiani – pagano le pensioni attuali; i lavoratori futuri pagheranno le pensioni di chi lavora ora. E’ intuitivo che il sistema a ripartizione funziona bene se ci sono molti occupati ed i salari sono alti. Per i disoccupati i dati sono noti, anche se andrebbero meglio articolati e aggiornati per età quelli sulla disoccupazione giovanile, mentre per i salari il dato è meno conosciuto. Negli ultimi venti anni la quota di ricchezza distribuita, al profitto ed alle rendite, è aumentata di molto a scapito dei salari, invertendo cosi il rapporto esistente fino agli anni ottanta.
In altri termini: disoccupazione, lavoro precario, bassi salari – con conseguenti bassi contributi – in un sistema a ripartizione non possono non mettere in crisi il pagamento delle pensioni. Non si tratta quindi di un conflitto tra generazioni, ma di scelte di politica economica che privilegiano la competizione sul ribasso del costo del lavoro, piuttosto che sulla innovazione del sistema produttivo.
Un esempio di questo indirizzo è dato dai periodici annunci di sgravi contributivi. Per ultimo la prossima legge finanziaria che quantifica gli stessi in 1,3 miliardi, ovviamente per favorire l’occupazione giovanile, abbassando appunto il costo del lavoro e mettendo in crisi il bilancio INPS, con conseguente necessità di un contributo statale, che a sua volta servirà a rafforzare ancor di più il pregiudizio che il sistema pensionistico è insostenibile, non ce lo possiamo più permettere.
In realtà l’argomento pensioni, con relativa cospicua ed appetibile dimensione finanziaria, è utilizzato per mascherare concretissime scelte di politica economica: qualcuno avrà pur sentito parlare di austerità.
Al dunque se la Sinistra, comunque intesa, vuole affrontare questi problemi – lavoro, sviluppo, equità sociale, pensioni – deve tornare prima di tutto ad occuparsi seriamente di economia, elaborando politiche diverse da quelle neoliberiste e riponendo al centro l’obiettivo della piena occupazione.
Luigi Picena
* Già pubblicato sul Secolo XIX del 3.12.2017