Una delle parole di cui oggi sentiamo più bisogno è sicuramente quella della gioia. Viviamo, almeno in Occidente, in un contesto fatto spesso di comodità, paura, diffidenza, stress che ci rendono degli assetati di gioia, anche se spesso ce ne dimentichiamo. D’altra parte, la gioia è anche una di quelle parole che, non a caso, il pontificato di papa Francesco ha maggiormente sottolineato fin dall’inizio. Basti pensare, prima di tutto, all’esortazione apostolica Evangelii gaudium (La gioia del Vangelo). Ma come possiamo definire la gioia? Cosa vive chi è gioioso? In cosa si esprime? È uno stato d’animo, una sensazione, una virtù? La riflessione che propongo nasce proprio da questi interrogativi.
Per proporre una possibile risposta vorrei partire proprio dalla due frasi iniziali dell’esortazione apostolica: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento»1.
La prima questione che emerge è la caratterizzazione della gioia che, secondo le parole riportate, ha a che fare prima di tutto con il Vangelo, con un Eu – anghelion, un buon annuncio, una buona notizia. Il cuore di colui che è gioioso ha interiorizzato dunque qualcosa di buono, pieno, traboccante, che guida il suo sguardo su stesso, sugli altri, sul mondo. Ora questa affermazione implica non poche conseguenze: innanzitutto il fatto che, consapevoli o meno, noi siamo abitati da una o più notizie che guidano la nostra vita, tanto più oggi nella società dell’informazione 2.0, della connessione costante, della vita sociale diventata vetrina virtuale. Il nostro cuore, la nostra mente, la nostra visione della realtà è costantemente toccata da quello che viviamo, sentiamo e percepiamo intorno a noi. Questo flusso ipertrofico di notizie, per lo più tremende o insignificanti (dalle stragi di guerra alla vicenda sentimentale di una pop star), entra profondamente in noi soffocando lo spazio di un annuncio buono che ci faccia benedire il mondo e noi stessi. Perché l’invasione di queste notizie soffoca in noi il l’annuncio di pienezza? Perché ci fa ritenere che il mondo mediato che ci viene consegnato sia l’unico esistente e ci fa smarrire il senso del reale, con cui la gioia ha molto a che vedere. Ecco allora il primo volto della gioia: essa ha molto a che fare con lo spazio che nel nostro cuore abbiamo riservato, magari lottando, ad un annuncio di pienezza e, allo stesso tempo, in essa si rivela la nostra capacità di sentire il reale, di rimettere in discussione narrazioni vivendo il reale, rendendo virtuoso il nostro piccolo mondo e non lasciando che il nostro reale si riduca al virtuale.
Il secondo elemento che la frase dell’Esortazione del papa mette in evidenza è che la gioia riempie il cuore e la vita di coloro che vivono un incontro. Dunque la gioia, oltreché accoglienza di un annuncio buono e senso del reale, è un incontro e, dunque, relazione. Chi è gioioso vive costantemente in una relazione con cui interroga, approfondisce, custodisce il reale. Ecco allora che la gioia non è tanto uno stato d’animo improvviso, non è una sensazione di benessere che porta a ridere costantemente, ma è una capacità, una virtù che porta letteralmente a ferire, ad aprire la propria vita, gli incontri, le situazioni, i rapporti, ad una relazione fondamentale tale per cui il proprio giudizio su se stessi, sugli altri e sul mondo è sempre interrogato e quasi sempre sospeso nella speranza di una risposta non facilmente precostituita. Colui che vive questa gioia allora, proprio perché ben radicato nel reale e nell’interrogazione di esso, sa anche abitare lo spazio dell’attesa, a volte dell’inquietudine, e non ha facili risposte da offrire. Il gioioso che delineiamo non sorride sempre, ma sa attendere risposte. La gioia ha, così, molto più a che vedere con la virtù che con l’attimo di piacere. Così intesa essa non è da contrapporsi, in alcuni particolari momenti della vita, all’inquietudine perché, come ci insegna il Vangelo, la domenica di Pasqua (immagine per eccellenza della gioia evangelica) si trova in fondo al Getsemani e al venerdì santo (immagine per eccellenza dell’inquietudine evangelica). La gioia, in altri termini, è di chi sa abitare anche lo spazio dell’aridità, oggi per lo più esorcizzata, per attendere il dono della fecondità da un A/altro.
Infine la gioia è l’esperienza della liberazione dalla tristezza, dal vuoto, dall’isolamento. Vivo l’esperienza della gioia quando mi percepisco libero dagli annunci che riducono il mondo ad un destino di morte, quando vivo nella relazione con gli altri, quando il vuoto di senso, che può capitare di percepire, non è assolutizzato e idolatrato, quando riesco a chiedere aiuto per essere liberato.
Cosa vive chi è gioioso? Vive il reale interrogandolo nella relazione, non accetta risposte facili, non confonde lo stato d’animo con se stesso, non si ripete di dover sorridere; sa piangere, sa accettare il vuoto, l’inquietudine, ma vive nella speranza, nell’invocazione della parola buona e dell’annuncio buono che riempie il cuore ma che si guarda bene di anticipare con ripetizioni ossessive di formule ripetute. Il viaggio della nostra vita dipende molto da quante volte abbiamo incontrato questa gioia perché essa è la vera liberazione di cui il nostro tempo ha un estremo bisogno.
Davide Penna
1. Evangelii Gaudium 1