«Maria che prova, sola nello sterco degli animali, una culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti, a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l’inceneritore di una clinica diventi tomba senza croce di una vita soppressa. Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse, è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corto circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli angeli, che annunciano pace, portino guerra alla vostra sonnolente tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con la gravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio per fame». (Don Tonino Bello)
Una delle letture natalizie che più mi hanno colpito durante l’adolescenza furono gli auguri scomodi che don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, rivolse ai fedeli per il Natale del 1985. Riprendo da lui, con timore reverenziale, questa espressione, scomodità, così lontana dalle nostre pubblicità smielate di luci e canzoncine e dai nostri centri commerciali pieni di festoni e di rumori da far girare la testa; ma, allo stesso tempo, una parola così vicina all’esperienza cui ci rimanda il Natale, ovvero la nascita di un Dio neonato nella notte di Betlemme, deposto in una mangiatoia perché altro posto non c’era per Maria e Giuseppe. Doveva essere proprio scomoda quella prima culla del Signore, re del cielo e della terra, accolto nel mondo in un villaggio sperduto di una regione lontana del grande impero romano. Una scomodità che auguro di tutto cuore a chiunque legga e a me stesso, perché è necessaria per camminare con coraggio sull’unica strada che possa portare a realizzazione, pienezza, senso, pace profonda, orizzonti ampi, fraternità vera e duratura: la donazione di sé in una vita che è preghiera.
Perché la comodità, invece, è deleteria? Perché, profondamente, in essa si spegne il desiderio che, invece, nasce e si accende nell’accettarsi come limitati, determinati, piccoli e quindi bisognosi. La comodità esorcizza il bisogno trasformandolo in idolo, ovvero immagine di Dio, a cui prostrarsi e a cui sacrificare i luoghi migliori della nostra vita, come la comunione familiare, l’amicizia, il lavoro, la relazione educativa. Lo scotto che si paga al dio-comodità è grave: il mondo e l’altro diventano dei grandi mezzi per soddisfarmi. E qualora il mondo e l’altro rimangano se stessi non lasciandosi ridurre a semplici strumenti per il mio benessere, allora nasce rabbia, risentimento, vittimismo. La comodità mi porta ad avanzare pretese sul mondo e sull’altro e, a poco a poco, atrofizza la mia capacità di apertura, il mio ascolto, il mio saper vivere con l’altro. La comodità è, così, la porta della irrealtà, di un mondo fittizio dominato dal mio io e dai suoi bisogni.
Vorrei, allora, richiamare tre scomodità da fare nostre per vivere davvero la festa di un Dio neonato: relazionale, di fede e nelle certezze personali.
La prima: mi e vi auguro quella scomodità nei rapporti che porta a vedere nell’altro, prima di tutto, non una risposta a proprie esigenze, un mezzo per il soddisfacimento di bisogni, un ostacolo o un suppellettile nella costruzione di quella grande illusione che è l’io senza gli altri, ma a viverlo come un approfondimento del proprio limite e, quindi, come una domanda su di sé e una richiesta di un bene di cui io posso essere tramite e servitore. Quella scomodità relazionale che porta il cuore, la mente, le mani e le gambe a riposare nella faticosa costruzione di rapporti autentici e di servizio, dove non importa che si imponga la propria idea, ma sia centrale l’ascolto, non solo delle parole, ma anche dei volti, dei respiri, dei significati profondi di cui l’altro è portatore. Una scomodità, dunque, che dice apertura.
Una scomodità di fede. Sì, perché se si festeggia un Dio bambino, la cui esistenza avrà come culmine il massimo del vilipendio per la religione, ovvero la crocifissione fuori dalle mura della città santa, come il peggiore dei bestemmiatori e peccatori, non si può celebrare una fede annacquata, comoda, rilassata e conciliante, o, peggio ancora, una religione dell’ideologia, dove si giustificano le ingiustizie, dove si celebra il merito di chi appare in prima pagina e si condanna l’escluso, dove abbiamo bene spiegato il senso di ogni cosa che accade e giustificato ogni fatto. La fede cristiana è scomoda perché è la reazione ad ogni forma di idolatria, ovvero ad ogni forma di appropriazione e riduzione dell’A/altro a semplice funzione della mia vita. La fede cristiana è intrinsecamente scomoda perché celebra nell’Eucarestia un Dio-nulla, un Dio pezzo di pane, cioè incontro con il frutto/dono del nostro lavoro, ri-donato per essere mangiato. Lì, in quell’ostia consacrata che adoriamo, la presenza viva e reale di Cristo non si trasformi in feticcio, ma sia testimonianza della sua assenza, della nostra attesa, della nostra fede e del nostro bisogno di Lui. L’Eucarestia è sacramento, segno e strumento della realtà di Dio, non se si trasforma in un altro vitello d’oro a cui si prostrano le nostre ginocchia mentre le nostre menti, il nostro cuore e magari le nostre mani restano sospese contro il fratello, ma se è celebrata, adorata e accolta, come la verità di un Dio che vuole vivere in noi per essere portato al mondo.
Un Dio-nulla, un Dio che fa essere senza imporsi, un Dio che dona illuminando il dono e ritraendosi come donante. Questa è l’essenza vera del dono, da cui il nostro Natale sembra sempre più allontanarsi: il nascondimento di colui che dona atto a mettere in luce il dono, primo fra tutti il regalo più grande che abbiamo, la nostra vita. La luce che Dio dona è tutta dispiegata verso ciò che è donato, perché Egli è pura gratuità. Gratuità, che, tuttavia, non è mancanza di relazione, di ricerca dell’altro, di reciprocità, tutt’altro; la reciprocità è il culmine, il punto più alto della gratuità, ma non è da questa imposta. La reciprocità, propriamente, nasce dal saper accogliere e fare spazio alla gratuità, al dono di colui che si ritrae donando. Che fantastica notizia, scioglie il cuore ad accettarne il senso profondo con fede! Proprio questo si celebra nella comunione: Dio si fa nulla per essere accolto nel nostro cuore che, così, può trasformarsi in culla perché quel Dio-neonato, di cui tanto il mondo ha bisogno, rinasca ancora. Allo stesso tempo noi, in quel sacramento, siamo chiamati a diventare nulla, a sciogliere le nostre aspirazioni, le nostre pretese, i nostri sogni, le nostre proiezioni nel Signore. Così il dono di Dio deve essere cercato, atteso, sperato, chiesto, non anticipato, attraverso quell’atteggiamento di veglia che è la cifra, spesso, dell’annuncio evangelico: vegliate come sentinelle, vegliate per non cadere in tentazione – quella tentazione odiosa che è ridurre Dio ad una nostra idea e quindi a noi stessi – vegliate per aspettare, desiderare, incontrare, lo Sposo! Una scomodità, allora, che è relazione vera con Dio e che trova pace nell’abbandono in Lui, anche quando è più difficile farlo.
Scomodità, infine, nelle certezze personali; un Dio che si annulla, che ci mostra il culmine dell’amore come abbandono dell’amato, per far vivere all’amato quello che Lui stesso è, amore gratuito, non può che svuotare il nostro orgoglio e il nostro continuo tentativo di cercare solo risposte, consensi, attestati di stima o conferme in quello che viviamo, di cambiare la realtà alla luce oscura degli schemi ideali che abbiamo in testa. No, la vita non è solo questo, è molto più grande, e spesso è domanda, ricerca, mettersi in discussione, lacerazione, dubbio, fatica, fallimento. Questa è l’aria in cui poter crescere, respirare esperienze nuove, di maturazione di sé, non tanto verso il successo, ma per il compimento dell’io nel tu e, il cielo voglia, del tu nell’io, laddove la donazione reciproca crea comunità, famiglia e, dunque, porta nel mondo l’immagine della Trinità. Una scomodità, allora, che è ricerca e ascolto.
Apertura, abbandono in Dio, ricerca e ascolto. Ecco quattro buone parole per vivere davvero un Natale vero perché scomodo. Che sia un Natale scomodo nelle nostre comunità, nei nostri movimenti, nelle nostre famiglie, in noi stessi.
Davide Penna
Grazie Davide!lo spero tanto non solo per Natale ma per tutta la nostra vita!