E’ appena il caso di esplicitare che, per “attualità politica”, io intendo riferirmi alla situazione dell’Italia e a quella dell’Unione Europea, situazioni (o “questioni”?) strettamente connesse.
Ciò premesso, la recente pubblicazione del libro “Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo”, Ed. Laterza, del sociologo inglese Colin Crouch mi ha ricordato che a lui si deve l’espressione postdemocrazia (o quantomeno il suo rilancio). Si tratta di un’espressione risalente a una quindicina di anni fa e più che mai attuale in quanto con tale sintetico termine lo studioso intendeva indicare l’assetto verso cui sembrano tendere i sistemi politici occidentali. Crouch sosteneva cioè che, benché rimanessero in vigore le “forme” della vita democratica, si stava delineando una nuova configurazione che non era un regime autoritario, ma neppure un’autentica democrazia. Sembra anche una fotografia dell’Italia attuale! La “postdemocrazia” secondo Crouch è infatti contrassegnata da una diffusa apatia politica, dalla crescente sfiducia nei confronti della classe politica tradizionale, dal declino delle consuete forme di partecipazione dei cittadini. Qui da noi (l’ho verificato ancora recentemente) l’apatia in particolare si è trasformata in un risentimento aggressivo, in una protesta che sta premiando i ben noti politici dai toni radicali (e spesso tutt’altro che urbani) e cioè quei leader e quei partiti che si definiscono “populisti” e “sovranisti”.
Se poi ci riferiamo all’Europa, il primo ad avere la chiara consapevolezza del suo problema essenziale, perché attinente la sua stessa esistenza, è lo stesso Papa Francesco. Ricevendo in udienza la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (da poco presieduta, ricordo, da Stefano Zamagni) lo scorso 2 maggio, il Pontefice ha testualmente asserito che “uno Stato che suscitasse i sentimenti nazionalistici del proprio popolo contro altre nazioni o gruppi di persone verrebbe meno alla propria missione. Sappiamo dalla Storia dove conducono simili deviazioni. Basta pensare all’Europa del secolo scorso”. E, riferendosi alla questione della pace e all’Unione Europea, ha raccomandato di “non perdere la consapevolezza dei benefici apportati da questo cammino di avvicinamento e concordia tra i popoli intrapreso nel secondo dopoguerra”. Quasi in risposta al discorso papale il successivo 3 maggio, a Parigi, i rettori di 30 università cattoliche operanti nei Paesi dell’UE hanno lanciato un appello per un’Europa “capace di sentirsi una comunità”, consapevole di avere “un posto e una responsabilità specifica verso il mondo” e di essere depositaria di “un bene originale, prezioso e fragile com’è la democrazia”. Ma in Italia c’è da rallegrarsi soprattutto perché anche i giovani universitari cattolici, ritrovatisi a Urbino a partire dal 2 maggio in occasione del congresso della relativa federazione o FUCI, hanno discusso di nazionalismi ed europeismi e acquisito l’esperienza di docenti già appartenenti al Parlamento europeo.
Quanto sopra è positivo anche perché, in primo luogo, per l’Europa c’è bisogno di più cultura. E poi perché, a mio avviso ma non solo, occorre riprendere la riflessione, troppo frettolosamente abbandonata, sulle radici cristiane dell’Europa.
A questo punto faccio anch’io il mio appello per quanto attiene la situazione italiana (ricordando che, come dicevo all’inizio, tale situazione è strettamente connessa a quella europea).
Se l’impressione non è errata (ma è comunque frutto della mia esperienza e dei miei rapporti), c’è nel Paese troppa inerzia a fronte di chi ci “guida dall’alto” con un cinismo privo di ogni rispetto per chi sta in basso e per chi soffre, per chi sta male, per i poveri e i bisognosi, per i segnati dalla sorte considerati colpevoli del loro star male come accadeva in secoli lontani…
In una situazione come quella poc’anzi e sommariamente descritta, come reagiscono le nostre minoranze eticamente ispirate che hanno sostituito per decenni uno Stato che ha rinunciato ai suoi doveri? Con la vecchia “morale dello struzzo”? No, amici! La bonaccia dello smorto mare delle “buone pratiche” che non cercano i modi giusti per reagire insieme è più che mai preoccupante, è contraria agli stessi motivi per cui le iniziative erano nate. Il mio appello è allora quello di perseguire la visione, dal basso e dalle pratiche, di una “lotta” che non può non essere anche politica, una lotta –beninteso- fatta di convegni, manifestazioni e obiettivi comuni. Anche per la Dottrina sociale della Chiesa, lo sappiamo, è un dovere morale la resistenza e il contrasto a ogni forma di ingiustizia!
Paolo Venzano