Si direbbe che le parole di oggi – le più diffuse, le più ascoltate – siano virus, contagio, tampone, tendenza, positivi, intensiva, emergenza, mascherina, ventilatore, incremento, misure, decreto, dichiarazione, necessità, ansia, diffusione, crisi, pandemia. Rimbalzate dai social, ripetute dai telegiornali, spesso martellanti nella nostra mente, invadono i nostri discorsi a tavola, in salotto, al telefono.
Ci sono altre parole, che incontro oggi nella mia giornata, che dietro al primo significato ne nascondono un altro. Credo mi faccia bene provare a raccontarle.
Attesa. Tutto diventa attesa: attesa che questo tempo passi, attesa al supermercato, attesa degli aggiornamenti al telegiornale, attesa che qualcuno torni dalla spesa, attesa di notizie dagli amici, dai parenti. In un senso cristiano, tutta la nostra vita è attesa, attesa del regno di Dio. L’omelia di oggi diceva che dovremmo vivere come preparazione alla morte, ma in genere viviamo come preparazione a quanto di più immediato abbiamo davanti: un acquisto, una vacanza, una cena, un aperitivo, un colloquio di lavoro o un esame scolastico.
Ricordo l’attesa dell’arrivo di mio padre da Genova con la 1100, al sabato in campagna, al cancello del giardino, sulla strada Ceva-Ormea, con le mie sorelle, e con le biciclette. Contavamo le auto, le moto e gli autocarri: ogni veicolo valeva uno, due, tre punti, a seconda del tipo e della dimensione. Raggiunto un punteggio stabilito, si iniziava un nuovo giro del giardino con la bici, poi di nuovo fermi al cancello. L’attesa era un gioco, era l’attesa di qualcosa di bello, l’arrivo di papà, con quello che magari portava da casa, ma soprattutto la prospettiva di fare qualcosa di bello insieme.
L’attesa è attesa dell’altro, attesa dell’Altro. Pensiamo di saper attendere l’altro, ma non ne siamo mai veramente pronti. E ci dimentichiamo troppo di attendere l’Altro: pensiamo che l’attesa sia riservata al momento finale, ma Lui invece ci aspetta ad ogni ora. Quello che è vero per l’amico, il figlio, la moglie, è vero per Lui. Forse prepararsi per la sua venuta in ogni momento (momento per momento) è la preparazione più vera per «quel» momento?
Silenzio: il «silenzio assordante» (ben noto ossimoro, ripetuto anche dal Papa nell’omelia del 27 marzo), solcato dalle sirene. Tacciono i nostri oggetti, le nostre auto tutte quante ferme nei parcheggi. Tacciono gli aerei, di linea e da turismo. (…ancor di recente, il volo di un Piper sopra Genova mi rievocava un’antica dolce ovattata atmosfera domenicale). Sentiamo le voci dei vicini, molto più di quanto le sentissimo prima. Sono quasi rassicuranti, c’è vita intorno a noi. Il silenzio è faticoso, a volte: per questo ci buttiamo sui social e sui programmi TV, per questo facciamo flash-mob.
Una risata attraverso i muri ci solleva per un istante: qualcuno che non sembra sommerso dal grigiore. Cerchiamo il contatto telefonico. Come Giobbe, a volte pensiamo che Dio sia in silenzio, e non ci ascolti. È il «silenzio di Dio», di cui tanti hanno parlato. Ma c’è un altro modo di vedere questo silenzio, ed è quello dell’ascolto. Possiamo (almeno tentare di) far silenzio in noi – dove invece siamo frastornati da pensieri, ipotesi, numeri, timori e preoccupazioni – e provare a metterci, una volta, solo in ascolto:
«Che passi, Signore, la prova
che ci attanaglia l’anima fino all’agonia;
ma non tramonti no, mai,
quella tua splendida figura luminosa
nella notte nera, quando,
nel deserto del tutto,
Tu solo sei fiorito per noi
e, nel silenzio di ogni cosa,
Tu solo hai parlato
e, nell’assenza di ognuno,
Tu solo ci hai fatto compagnia,
ripetendoci soavemente le verità
che non debbono affievolirsi
nella nostra anima:
che qui siamo di passaggio
e il luogo dell’arrivo è un altro;
che tutti sono ombra
e Tu solo la realtà.»
[da: Chiara Lubich, ‘Tu non passare’, Frammenti, ed. Città Nuova, pagg. 62-63]
Stare. Dobbiamo ‘stare’ a casa… è uno stare che – inizialmente visto come novità, a volte reso (un po’ a forza) divertente, con la ginnastica, gli aperitivi online, la musica dai balconi, è diventato via via più faticoso. Perché il difficile non è lo stare fermi, chiusi; ma lo stare in una condizione di costante precarietà, di pericolo potenziale, di allarme che non si sa come e quando potrà terminare. Si va via via scoprendo come il tentar d’uscire – di evadere con la mente – da questo stato di cose, sia in fondo controproducente: come un insetto dentro un barattolo, che sbatacchia inutilmente contro le pareti. Non abbiamo, ciascuno per sé, la soluzione in mano. Si impara a stare, a lasciarsi “attraversare” dalla paura, dal disagio, da cui sfuggivamo sempre, accettare che può esistere un periodo anche lungo senza soluzione visibile o prossima.
Pazienza. Lo stare porta con sé la pazienza. Questa grande assente dalla vita veloce, dalla vita sullo schermo, dalla vita efficiente, torna di moda, ma è poco nota, la conosciamo poco. La pazienza sembra lontana dall’efficienza ma può essere invece molto vicina all’efficacia, al puntare dritti allo scopo vero, che è l’essere e non il fare. Pazienza che non è fatalismo né rassegnazione ma capacità di coltivazione dell’essere. Pazienza, di nuovo, si collega con attesa.
Attenzione. Siamo diventati attenti ad ogni notizia che parla di «quello», l’unico argomento divulgato, ripetuto, dibattuto, postato, con testi foto video suoni. Siamo costretti ad essere attenti a quello che facciamo: mani lavate, «distanza di sicurezza» (curioso: quanti di quelli che si facevano un vanto di stare a meno di un metro dall’auto davanti in corsia di sorpasso, adesso cercano di stare a ben più di un metro dalla persona vicina?), attenzione ad acquistare tutto quel che serve, per non tornare due volte al supermercato. Attenzione a non dimenticare di compilare il foglio. Attenzione a ciò che si tocca. Attenzione alle informazioni utili: quando e dove arriveranno le mascherine? Qual è l’ultimo modello di auto-dichiarazione? Questa attenzione, dimenticata almeno tanto quanto la pazienza, improvvisamente «serve». E forse, l’essere così a contatto con quelli che abitano con noi, e magari il bisogno stesso della loro vicinanza, della loro presenza, riporta alla luce anche l’attenzione alla persona. Al bisogno dell’altro. Al suo bisogno di attenzione.
Desiderio. Le più belle foto e video di mare, paesaggi, fiori stanno girando adesso in rete. Sono le cose belle che vedevamo, che facevamo, che non sappiamo quando (e se? e con quale libertà?) potremo fare di nuovo. Nostalgia, e desiderio. Mai come adesso il desiderio si avvicina al suo più bel significato etimologico: «avvertire la mancanza delle stelle».
(…un altro ricordo. Avevo trovato un testo di astronomia – quando Wikipedia non esisteva – e col suo aiuto andavo sul terrazzo a individuare le costellazioni: Orione, la più facile, d’inverno. Il freddo, e il mistero dello spazio…).
Quanti di noi si sono ritrovati a dire: «quello che avevamo non lo apprezzavamo abbastanza, fosse anche solo guardare il mare o un fiore o un tramonto»? Desiderio di spazio, d’aria pulita, di acqua fresca, di alberi, di mare, d’erba… desiderio di vicinanza, di abbracci e di risate.
Riccardo Poggi
Bellissime riflessioni, Riki, complimenti! Condivido in pieno.
Grazie, Riccardo, per queste riflessioni, che mi hanno consentito di staccare dal gran tran quotidiano e vivere le sensazioni da te descritte con più coscienza.