PASSAGGIO A VENTIMIGLIA…

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«Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,34). Inizia così il messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato che si celebra domenica 14 gennaio. Il messaggio si sviluppa poi attorno a quattro parole “Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati”.

Recentemente siamo stati a Ventimiglia nel cul de sac per dirla in francese, o se preferiamo il filtro, l’imbuto dentro il quale centinaia di persone giunte qui, per sfuggire alle guerre e alle carestie cercano quotidianamente di passare la frontiera per poter raggiungere l’Europa del nord. E abbiamo visitato l’accampamento degli “invisibili”, coloro cioè che sognano di passare il confine il prima possibile. Per questo non vogliono essere schedati, e per questo non bussano al centro di accoglienza della Croce Rossa, ma vivono in una baraccopoli sotto il viadotto che porta in Val Roya.

Stringe il cuore e un groppo in gola soffoca qualsiasi pensiero. Ma loro sono sereni. In gruppetti giocano a palla, altri attorno ad un fuoco parlottano. Ci salutano e si raccontano. C’è invece chi sbircia da sotto i tendoni per vedere cosa sta succedendo. Chi ancora su un tappeto raccolto forse nel cassonetto della spazzatura prega Allah. E chi ancora ci spiega che è al decimo tentativo di attraversamento della frontiera. Sempre ripreso e sempre riportato in Italia. Qui è vietato pensare, si può solo constatare il livello dell’umanità. Si può solo osservare in silenzio, con le lacrime agli occhi, la fine dell’Europa dei popoli e l’inizio dell’Europa degli egoismi.

«Ma la felicità è tutt’altra cosa, è quella che ciascuno di noi tiene nel suo cuore e dona a chi gli sta accanto», dice un ragazzo nigeriano. Ed è davvero così. Qui incontriamo Hassan, un tuareg giunto dal deserto del Mali per sfuggire ai guerrieri dell’Isis. Ha vent’anni e fa il pizzaiolo a San Remo. I suoi fratelli più piccoli, due maschi e una femmina, vivono con i genitori che allevano bestiame nel deserto del Sahara. Appena potrà tornerà con loro. «Là – mi dice – è molto bello. Siamo felici, viviamo nelle grandi tende e ci spostiamo dove c’è acqua e erba. La vita è una meraviglia, prego Allah che mi aiuti ogni giorno».

Ci spostiamo nel bar vicino alla stazione per un caffè. La proprietaria da giovane è immigrata dal sud Italia nell’Emilia con i genitori, poi si sono trasferiti in Australia per tanti anni, e poi Ventimiglia. Sa cosa significa essere o, come nel suo caso, sentirsi stranieri. E così il suo bar, da quando Ventimiglia è stata presa d’assalto, è diventato punto di accoglienza. «Due estati fa – racconta – c’era una lunga fila di persone dall’altro lato della strada, si riparavano dal caldo all’ombra. C’erano donne incinte e bimbi piccoli. Li ho invitati nel locale per bere e ripararsi. Da allora il locale è diventato un punto amico per queste persone». Ci si può stare anche senza consumare. Addirittura nella saletta dove si giocava a carte c’è ora un armadio con album e colori. I bimbi vanno a disegnare e un’amica insegna la lingua italiana a chi lo desidera. Ma ci si può anche cercare lavoro, casa. E soprattutto calore umano. Naturalmente in questo bar i cittadini di Ventimiglia non ci mettono più piede.

Ormai s’è fatto buio e dai paesetti della valle Roya scendono le auto dei francesi, come pure da Nizza e Montpellier, portano la cena. Il riso, le uova, le bevande calde, il formaggio. La frutta. Ogni giorno è così: pranzo alla mensa Caritas gestita da tanti volontari che portano vivande. La sera da oltralpe i francesi portano la cena. Abbracci, auguri. Panettoni. Qualcosa da mangiare, felicità da donare nella maniera più genuina e sogni da coltivare. Quella di poter un giorno essere considerati persone a tutti gli effetti. Non uomini schedati, senza patria e senza diritti.

Silvano Gianti

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