Sessanta morti e tremila feriti. Ripetiamolo. Sessanta morti e tremila feriti. E la tragedia di questa conta sembra essere persino provvisoria, destinata a salire come l’orrore di chi assiste, impotente, a questa strage. Tra una notizia e l’altra, tra le maratone sulle sedute tecniche volte a trovare il bando della matassa “contratto di governo o programma?” e lo scudetto della Juventus, apprendiamo che a Gaza è avvenuta una nuova strage, che in quanto tale è sempre di innocenti poiché l’umanità non è mai troppo degna di morire uccisa, con il più o meno rattristato tono di chi annuncia i telegiornali o condivide i link. E così, masticando la cena o consumando aperitivi, tra le numerose notizie diversissime ingurgitate in pochi secondi, la nostra capacità di compassione, quella che aziona in noi i processi vocazionali direzionati verso i fratelli che soffrono a causa dell’ingiustizia, viene mortalmente ferita, dilaniata, sopita… azzittita. Che serve soffrire per gli altri? Quale utilità nel piangere insieme? Nessuna? Allora, si dirà, buttiamola via, insieme a tutto ciò che non è utile. Al caos calmo dell’orrore che stordisce il cittadino e che rimbalza tra Parigi, l’Indonesia e Gaza, la nostra umanità ferita si difende come può e, spesso, reagisce con l’indifferenza. Così, ci abituiamo ad assimilare immagini che, messe insieme, intonano una tragica disarmonia, come il selfie di Melania Trump e Netanyahu davanti alla targa che celebra (…sessanta morti e tremila feriti…) la nuova ambasciata americana a Gerusalemme affiancato alle immagini di madri palestinesi che piangono figli morti.
Come possiamo reagire a questo cortocircuito emotivo, di più, razionale, di più, esistenziale, causato dall’ipertrofico bombardamento di informazioni mediate che, sotterrando il nostro cuore tra disperazione e indifferenza, ci chiude in noi stessi e porta, a poco a poco, a sostituire i desideri più profondi (di pace universale, di gioia condivisa, di bene comune) con un buon panino da McDonald’s?
Penso che questa sia una delle sfide più grandi delle nostre generazioni, quelle trasformate dalle vetrine dei social virtuali (quasi un ossimoro… come può una relazione essere virtuale?) e quelle nate nell’era digitale. Lo schermo illude di fornirci conoscenza del mondo a colpi di click: di colpo, tutto quello che è lento, meditato, non immediato, ripetitivo, e cioè tutto quello che mette radici la cui cura richiede tempo, pazienza, fedeltà e maturazione, diventa noioso e lo abbandoniamo. E con esso, lasciamo che in noi le radici vengano sostituite da sassi che difficilmente permettono il germoglio. A meno che… a meno che non ci abbandoniamo ad un miracolo. Quale?
Cosa può legittimare una simile strage? Può valere una ambasciata una vita? E sessanta? Incominciamo dal far entrare domande simili dentro di noi, magari accompagniamole ad un sincero pianto. Da qui può nascere una silenziosa ribellione. Non quella chiassosa di tifoserie e partigiani ribollenti di odio da aggiungere ad odio. Ma quella che, per amore dell’umanità, avverte la chiamata a mettersi in servizio della persona nella consapevolezza, anche drammaticamente assunta, che, nonostante tutto, la vita è una benedizione, l’occasione che ci è concessa per portare luce e bene, e l’umanità è il frutto più alto di questa benedizione.
Davide Penna