Passata sotto silenzio nei mesi precedenti, in questi ultimi giorni, con la decisione della corte di Strasburgo che ha rimandato alla decisione dei giudici inglesi, si è accresciuto il dibattito intorno alla tragica vicenda del piccolo Charlie Gard. Un episodio che non può lasciare indifferenti, che spinge a parteggiare con i giudici e medici da un lato oppure con la famiglia dall’altro; una tragedia che, in ultima analisi, ci rimanda alle domande più profonde della nostra esistenza, che non può non spingerci a chiedere a noi stessi: “qual è il significato della malattia, della vita, della morte?”.
Leggendo opinioni su opinioni diventa sempre più difficile avere una coscienza che sappia formarsi un’idea univoca sulla vicenda. Esperti, giuristi, medici, teologi, ecclesiastici, persone comuni ma pensanti, hanno provato a chiarire la loro idea, ad esporla pubblicamente, ad inserirsi nel dibattito; sì, perché nell’animo umano c’è quell’innata domanda, quella insanabile voglia di capire, quel dito che gratta fino in fondo al nostro cuore, che ci mette a nudo e che ci spinge a provare a dare un senso, a prendere posizione. Il mistero della vita, della morte e della malattia, ancora e per fortuna, ci spingono a problematizzare il reale, a mettere in dubbio le decisioni umane, a reagire contro la sofferenza di chi è piccolo e debole. Allora proviamo, in questa dolorosa domanda, in questa sofferente ricerca di senso, in questo disperato canto per la vita che insieme ai genitori di Charlie vogliamo intonare, a spingere il pensiero a riflettere.
Tra gli altri articoli più profondi che ho letto, due hanno catturato in modo particolare la mia attenzione: uno, di Padre Maurizio Patricello apparso su Città Nuova, e l’altro di Alessandra Rigoli scritto su Vita.it. Le due posizioni sembrano approdare a risultati diversi: il primo, con una riflessione non banale e senza cercare imputati, ha messo in guardia dal condannare a morte chi è più debole e a fare i conti con le conseguenze a cui queste scelte portano; il medico, invece, ha sottolineato l’estrema complessità del caso in cui, secondo la dottoressa, il continuare a mantenere in vita Charlie risulterebbe, in ultima istanza, accanimento terapeutico. Secondo Rigoli, infatti, la malattia del piccolo Gard porterebbe naturalmente alla morte e il mantenerlo in vita con complicati macchinari e sistemi di intubamento invadenti, che causano dolore e che non determinano un miglioramento della malattia, signfica procrastinare inutilmente la sofferenza: “Tenere un bimbo intubato per un mese significa arrecare dei grossi danni alla trachea, significa causargli infezioni severe e letali, significa tenerlo sedato in una condizione di grande sofferenza (provate a pensare cosa vuole dire avere un tubo in gola, che passa per le corde vocali, dover essere aspirato in trachea ogni 2 ore, senza poter deglutire e così via… su questo mi dispiace ma l’immaginazione non arriva mai a toccare la crudezza della realtà, quindi se non siete convinti vi invito a fare un giretto in una rianimazione pediatrica). Protrarre questi trattamenti non ha alcuno scopo, significa solo procrastinare un decesso inevitabile e facendo soffrire senza alcuno scopo, prolungare una vita naturalmente destinata a spegnersi attraverso atti medici estremamente invasivi e dolorosi”1. Che dire davanti a tutta questa sofferenza?
Non mi voglio addentrare nella questione del diritto superiore dei genitori rispetto alla volontà dei medici, cosa che peraltro condivido di fronte a questa situazione; mi sembra, tuttavia, più proficuo mettere a fuoco due elementi. Intanto, mentre leggevo l’articolo della Rigoli che mi è parso opportuno e non ideologico, avevo, in ogni caso, la sensazione che qualcosa non tornasse; solo dopo sono riuscito a mettere a fuoco cosa fosse. Certo, la gravità della malattia di Charlie è tale da costringere ad un intervento invadente sia e soprattutto per il bimbo, sia per i genitori sia per l’ospedale. Ma davvero è umano fermarsi davanti all’invadenza delle procedure per decidere di spegnere una vita? Davvero il nostro compito di società civile, di giudici e medici, è decretare che non ha senso che la sofferenza di Charlie continui? Possiamo davvero, per restare umani, non fare tutto quanto è in nostro potere per lottare insieme a Charlie e prenderci cura del più debole che ci sia, un bimbo gravemente malato? Ovviamente non possono esserci risposte semplici, pena il cadere in un’emotività che rischia, presto, di trasformarsi in vena polemica. E qui vengo al secondo elemento.
Non possiamo di fronte a questi casi, e soprattutto da esterni, cadere nelle polemiche verso la famiglia, verso giudici e medici, o verso chi, semplicemente, la pensa diversamente da noi; certo, possiamo manifestare la nostra distanza di posizione, possiamo anche dirci indignati davanti all’indifferenza. Ma non possiamo usare Charlie e la sua terribile malattia come pretesto per lotte ideologiche; questo uso pretestuoso può essere un sacrilegio, agli occhi di Dio, pari quanto alla volontà di staccare la spina. Una vita non è mai a nostra disposizione, nemmeno per motivi ideali. Quando la malattia dell’altro, al posto di interrogare e mettere davanti al tragico di cui anche la vita è impregnata, ci porta a dare giudizi e risposte semplici, stiamo commettendo una vera e propria profanazione. Perché?
Perché la vita è un mistero da custodire e contemplare. Un mistero che si rivela nel quotidiano, nelle scelte di ogni giorno e, in alcuni casi, in vicende limite come quella di Charlie. Ci sono momenti in cui custodire e contemplare la vita significa anche farla entrare dentro di sé, accoglierla con silenzio, rispetto, preghiera e riflessione. Mi viene in mente quella frase del Vangelo: “se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli”2. Se non diventeremo piccoli, la felicità non è una terra che ci potrà appartenere. Non per cercare un inadeguato infantilismo, una ingenuità non opportuna alla nostra età. Ma perché il farsi piccoli, il non ergersi ad ultimi giudici di noi stessi, degli altri, del mondo, ci apre alla verità. Vedo Charlie di fronte a me, metto a fuoco le immagini che ho visto: piccolo, indifeso, debole, intubato. Per custodire il mistero che questo piccolo ci sta rivelando dobbiamo farci come lui: muti, indifesi, deboli, aperti alla verità, alla manifestazione di senso. E invitare gli altri a farlo, anche giudici e medici. Di fronte a questo mistero, da esterno e da non esperto, scelgo di contemplare e di provare a sentire mio il dolore della famiglia, dei medici e dei giudici che hanno preso questa decisione, la sofferenza di Charlie. Come? Chiedendo di fare come società una scelta fondamentale: custodire il più debole. Ci sono casi in cui questa custodia può essere meglio salvaguardata se accompagnata verso la morte? Questo è un interrogativo grande quanto la vita. E chiunque non vivendo sulla propria pelle questa situazione, manifesti un’idea troppo chiara, usa la malattia e la sofferenza per apparire pubblicamente. E questo, Vangelo alla mano, è uno dei peccati più terribili che si possano commettere, perché avvicina a quello contro lo Spirito Santo: sapere di non essere in grado di dire qualcosa, ma dirlo lo stesso. Così come chi si chiude allo Spirito, sa di andare contro il bene ma decide, liberamente (grande mistero!) di chiamare e di vivere il bene come male, pur di ergersi ad unico giudice di sé, degli altri, della vita.
Davide Penna
1. A. Rigoli, Un medico cattolico: «Trovare nuove risposte a domande inedite», in Vita.it del 1 luglio 2017.