SILVANO E LE PERIFERIE ESISTENZIALI

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SEMPLICEMENTE DIVERSI

Quand’ero bambino avevo coraggio da vendere 20160611-SilvanoG- IMG_8517_resizema altrettanta paura, e l’uno e l’altra stavano alla pari nel mio immaginario, perché in fondo non m’era ancora accaduto di misurarmi con loro.

La prima vera sfida fu affrontare la strada che mi portava a scuola. Allora gli scuolabus non esistevano e quindi percorrevo i poco più di due chilometri a piedi o rare volte sulla bici di papà, che mi accompagnava oppure mi veniva a prendere a fine lezione. Quindi, a percorrere quel tratto di strada ero perlopiù da solo. Per un pezzo camminavo tranquillo, seguendo il ruscello che costeggiava il bordo strada, facendo a gara con l’acqua, visto che andavo nella sua stessa direzione, per vedere chi arrivava prima. Vi buttavo un foglio di giornale ben pressato e a volte mi veniva il fiatone per stargli al passo. Altre volte superavo orgoglioso la palla di carta, ma semplicemente perché si era impigliata in qualche radice d’albero. Il bordo del ruscello regalava bellissimi colori, quando in primavera fiorivano le primule o il luppolo, che raccoglievo e portavo a mia madre per fare delle frittate il cui ricordo mi fa ancora venire l’acquolina in bocca. In autunno, invece, alla base dei pioppi e dei gelsi crescevano le famigliole, funghi saporiti che con la polenta erano una delizia! Poi c’erano gli uccelli che secondo le stagioni si posavano sui rami, passeri, merli, gazze e corvi, pettirossi e cardellini. Le rondini invece si posavano sui fili della corrente elettrica. Anche se non c’erano altri ragazzi con me, in quel tratto di strada ero sempre in buona compagnia. Per non parlare dei cani che dal recinto delle case abbaiavano festosi.………….

Avevo, invece, già diciotto anni quando ho iniziato a lavorare in ufficio e ho conosciuto Enri. Con lui feci un’esperienza molto più dolorosa di questo mondo periferico. Dapprima avevo notato la sua auto: una vecchia cinquecento dipinta di rosa, con delle grandi margherite colorate di verde e di bianco sulle portiere. La vedevo spesso parcheggiata lungo le strade. Un giorno – si doveva essere consolidato il mio interesse per la diversità – decisi di fermarmi a vedere chi sarebbe venuto a prendere quella strana auto. Mi appoggiai a un albero non distante da lì e restai in attesa. Faceva abbastanza caldo e più volte pensai di lasciar stare e tornare a casa, ma ogni volta che ero sul punto di andarmene, mi dicevo «altri cinque minuti», e restavo appoggiato all’albero. Infine, si avvicinò un giovane alto, smagrito, capelli lunghi nascosti da un cappello a falde larghe. Aveva una chitarra in mano e i Ray-Ban scuri che gli cascavano sul naso. Lo osservai a lungo e a un certo momento, prima di entrare in auto, mi salutò, poi alzò il tettino, si sedette e iniziò a suonare la chitarra.LIBRO SENZA DIRITTTO A quel punto si rivolse verso di me, mi disse il suo nome e chiese se mi piaceva la sua musica. Non me la sentii di dire no, anche se ciò che avevo sentito non era propriamente musica, ma un’onda di rumori ricavata da sei corde nemmeno troppo accordate tra loro. Era, però, chiaramente felice di offrirmi qualcosa di suo. E, poiché gli prestavo attenzione, iniziò a raccontarmi la sua avventura.

Veniva da un comune bellissimo di poco più di cento abitanti, proprio tra le montagne sopra di noi, in una valle a mille e cinquecento metri, con case in pietra e tetti di ardesia, tra prati e pascoli che sfioravano il cielo, dove un sorso d’acqua di sorgente, un bicchiere di latte e una fetta di formaggio di malga hanno il sapore indescrivibile delle cose preziose, frutti di una natura ancora incontaminata. Enri aveva vissuto lassù i suoi anni di ragazzo, poi era sceso in città, e aveva scoperto una vita diversa, una libertà che non conosceva, ma soprattutto tante ragazze e tanti soldi. Così aveva scelto di vivere a valle. Lavorava e vagabondava. Con il tempo erano arrivati gli spinelli e, subito dopo, i primi buchi e i “viaggi” con la mente annebbiata….

……….

Sempre poi che le scelte dei più siano quelle giuste. Ci sarebbe molto da dire su questa nostra società a due dimensioni, con una forbice tra ricchi e poveri che cresce ogni giorno, come del resto ha confermato di recente il rapporto Ocse 2015, dove si parla delle disuguaglianze, dove si legge che l’1% più ricco della popolazione italiana detiene il 14,3% della ricchezza nazionale, mentre in fondo alla piramide sociale la popolazione più povera, pari al 40% del totale, detiene solo il 4,9% della ricchezza totale. Un terzo in confronto ai più ricchi. Ma qui si parla di medie, perché quel 40% le ricchezze le “detiene” in modo assai sperequato e più di uno non possiede assolutamente nulla. Basta guardare il degrado urbano: da una parte la città che conta, che decide i valori in gioco, che stabilisce la norma; dall’altra la città invisibile, abbandonata a se stessa. Certo, la cosiddetta società civile fa finta che questa parte di mondo non esista, guarda oltre e finge che sia un problema circoscritto. Ma come si può credere una cosa del genere? Tutta la nostra penisola presenta zone di degrado fin troppo note. Dai carruggi genovesi a San Salvario a Torino, a via Padova e via Adda in quel di Milano, fino alla stessa Piazza Duomo e alla stazione Centrale; a Bari c’è il quartiere San Paolo, poi ci sono il Librino di Catania, i quartieri spagnoli e Scampia a Napoli, Tor Bella Monaca e San Basilio a Roma, le stazioni di Brescia e Vicenza, il Quartiere delle Rose a Pieve Emanuele, a due passi da Milano 3 e via così lungo tutto lo stivale.

Varrebbe la pena di confrontare questi luoghi con le zone residenziali, le vie piene di negozi, i centri del business… Non fosse che a me il confronto interessa poco. Quello che mi preme è raccontare di quell’«anonimato assordante» ai confini dell’invisibile di cui parla papa Francesco.

Silvano Gianti

Stralcio dal libro “SENZA DIRITTO DI CITTADINANZA”. Se vuoi conoscere le tante storie di “periferie esistenziali” raccontate da Silvano basta PROCURARSI il libro edito da Città Nuova (ndr)…

 

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