La semplicità consiste nel ritrovare il gusto per valori come quelli dell’amicizia, della disponibilità, dell’essenzialità, che ci sono stati trasmessi dalle generazioni precedenti, per cercare di trasferirli a chi, oggi, è più giovane ed è cresciuto in un ambiente in cui era già penetrato in profondità il tratto del consumismo e dell’individualismo, più o meno esasperati.
La complessità, cui mi riferisco, è la conseguenza di un modello di sviluppo e di una “cultura” che ormai da diversi decenni si sono affermati, e che rispondono alla logica del “do ut des” ( io ti do e affinché tu mi dia ), piuttosto che a quella di uno scambio disinteressato, possiamo dire un amore scambievole.
D’altra parte, per dirla tutta e a pensarci bene, questo modello non è in sé così “complesso”, almeno nei suoi risvolti economici.
Si basa su dati principalmente “quantitativi” e non “qualitativi”.
La complessità, se vogliamo, deriva principalmente da una cultura individualistica che anziché unire tende a dividere e dunque ad atomizzare i rapporti umani.
In fondo, potremmo dire che si ripete, nella nostra civiltà contemporanea ,quel “Dividi e governa” – Divide et impera, in latino- che, in epoca antica, era alle base dell’Impero romano.
Nel senso che, come allora, chi detiene il potere, nel nostro caso quello economico principalmente, ma anche culturale, tende a dividere la comunità umana tra chi può tanto, quella parte minoritaria che può permettersi elevatissimi consumi; chi può abbastanza, quella fascia del ceto medio che, in Occidente e, parzialmente, anche nel resto del mondo, è andata crescendo nel corso dell’ultimo secolo ( è questa una fascia abbastanza significativa della comunità, almeno in Occidente, che però è stata toccata dalla crisi degli ultimi decenni, in particolare dopo il 2008); chi può a sufficienza ( costituisce, probabilmente, oggi, la maggioranza in Occidente, ma non nel resto del mondo, a eccezione forse dell’America Latina e della Cina). I consumi di questa parte sono sufficienti per un tenore di vita un po’ al di sopra della povertà; infine, “chi non può”, si tratta di quell’umanità che vive in gran parte al di fuori dell’Occidente, senza però escluderne una porzione anche in questa parte del globo ( diversi anni fa, ricordo dei dati sugli Stati Uniti, in cui sarebbero stati presenti c.a. 40/45 milioni di homless –persone senza casa .
Un libro di Elisabetta Grande, del 2017, “Guai ai poveri. La faccia triste dell’America”, Gruppo Abele, riferisce di oltre 105 milioni di persone che fanno fatica a far fronte ai bisogni più elementari).
Africa, Asia, ma anche in parte dell’America Latina – dove, però, non è forse maggioritaria questa componente della popolazione, sono i continenti che registrano le situazioni peggiori.
Una recente statistica, che mi è capitato di sentire, ha stimato in 850 milioni le persone che al mondo, ancora oggi, soffrono la fame.
Guardando a quest’ultima parte dell’umanità, di cui nessuno di noi fa parte, è possibile operare una scelta di vita che porti a voler contribuire alla costruzione di una convivenza umana ispirata ai principi della fraternità e della giustizia..
Si può farlo senza quell’odio e quella violenza che nello scorso XX secolo hanno caratterizzato eventi politici rivoluzionari che non sono stati in grado di mantenere le promesse, ma non potevano esserlo perché escludevano l’amore e si fondavano su presupposti esclusivamente ideologici.
Questo “ progetto” per un mondo in cui fraternità e giustizia possano realmente progredire ha ricevuto un contributo di grande importanza dal magistero sociale di papa Francesco, culminato nell’enciclica Fratelli tutti dell’ottobre 2020. Occorre costruire ponti di conoscenza e di collaborazione con tutte le persone di buona volontà, credenti, anche in altre fedi religiose (che sono andati crescendo negli ultimi decenni in Occidente in seguito ai processi migratori da altri continenti ), o anche non credenti, animati da una “ volontà buona” e da determinazione.
Solo in questo modo potrà crescere e consolidarsi una cultura della fraternità e dell’incontro, diversa rispetto a quella dell’individualismo, dello scontro, della divisione che si è affermata, in modo particolare nel II dopoguerra nel “nostro mondo occidentale”.
È un’impresa non semplice, certo, ma non impossibile, se siamo animati da una fede autentica e da comportamenti coerenti.
Essa ci permetterà di costruire, pur all’interno di quella complessità sopra richiamata, dovuta alla frammentazione individualistica in cui ci ridotti quel “divide et impera” ricordato, di ritrovare quel gusto della semplicità, dei valori essenziali, a partire da quelli spirituali, insieme con una condivisione anche dei beni materiali, per una convivenza più solidale e fraterna.
Renato Algeri