Il “caso” del dj Fabo (se “caso” non è espressione banale per la realtà di una tragedia) merita di essere attentamente considerato anche perché, per le circostanze, divenuto emblematico e potenzialmente esemplare per molte situazioni identiche o analoghe, presenti e future.
Dopo l’incidente che l’aveva reso paraplegico e cieco, il giovane aveva reagito adeguatamente per recuperare almeno in parte quella vita in cui si sentiva protagonista. Ma, convintosi della totale impossibilità di raggiungere l’obiettivo, ad un certo punto ha voluto la sua fine con la stessa determinazione. Qui mi fermo un momento per associarmi a chi, di fronte alla morte, ha doverosamente ritenuto che l’atteggiamento più rispettoso per Fabo fosse il silenzio. E, per chi crede, il suffragio.
Ma come prima accennato è necessario riflettere sul fatto per avvicinarci per quanto possibile alle ragioni che in casi estremi conducono al rifiuto della vita o, al contrario, le consentono di continuare, con diverso e convincente significato.
Ci soccorrono scienza ed esperienza.
A mio parere una prima ragione che azzera la voglia di vivere nelle circostanze in parola è costituita – in presenza di ulteriori elementi generalmente meno determinanti, quali la sofferenza fisica – dall’affievolirsi o dal venir meno delle relazioni umane. Sotto questo aspetto l’intervenuto rifiuto dell’ausilio psicologico per limitarsi alla terapia fisiatrica può aver avuto, per Fabo, conseguenze deleterie.
Ma una seconda causa, e di peso assai maggiore, io ritengo sia il fatto che il giovane, per motivazioni sue, non si è forse “aperto” all’amore che certamente lo attorniava. Al riguardo va però precisato – è l’esperienza di moltissimi – che la persona amata deve sentirsi importante, anzi di vitale importanza, per chi l’ama. E’ infatti la volontà di non causare un grande dolore ad altri che spesso trattiene dal gesto estremo. Personalmente potrei addurre una testimonianza al riguardo. Ma penso di essere creduto sulla parola.
A questo punto voltiamo pagina.
Il fatto di cui stiamo parlando, ben lo sappiamo, è stato usato in modo strumentale, prima e dopo l’evento, da chi sbandiera lo slogan che “l’uomo ha il diritto (naturale) di vivere e di morire”. E per connessione di idee ha accusato il Parlamento italiano di non aver ancora saputo o voluto concludere l’iter del disegno di legge sulle DAT o Dichiarazioni anticipate di trattamento. In effetti questo disegno di legge ha impegnato a lungo la competente Commissione parlamentare e sarà sottoposto alla Camera, per la discussione, solo a metà di questo mese di marzo. E’ però noto che l’oggettivo “ritardo” è ascrivibile soprattutto alla contrarietà, da parte di taluni componenti di detta Commissione, di inserire – come di fatto è avvenuto – la “nutrizione e l’idratazione artificiali” fra le “scelte terapeutiche” della persona interessata. Costoro non ritengono infatti che la nutrizione e l’idratazione, sia pure artificiali, configurino di norma altrettante “scelte terapeutiche”. E che di conseguenza consentire all’interessato di privarsi di cibo e acqua sia come consentirgli l’eutanasia passiva, notoriamente ancora vietata e punita dalla legislazione italiana.
Con l’occasione, essendo stato coinvolto in discussioni sull’argomento di cui sopra, dove le idee non sempre erano chiare e dove l’informativa scarseggiava proprio sulle DAT, a me pare di poter dire che una maggiore consapevolezza deriverebbe ai cittadini qualora, anziché di DAT, si parlasse per l’avvenire di DATS o Dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario.
Mi scuso per la lunghezza del discorso, ma ovviamente l’argomento è di straordinaria importanza. Ciò spiega anche il titolo che ho dato a questo scritto. Compito nostro sarà quello di fare il possibile per evitare che…slitti a dopo le elezioni!
Mi piace “chiudere” con un pensiero di Giovanni Paolo II, tratto dalla splendida enciclica Evangelium vitae del 25 marzo 1995:
“Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l’umana convivenza e la stessa comunità politica”.
Paolo Venzano